"Nahafaty Ravariky: nanano lala-mahitsy"
( proverbio
Betsimisaraka:” c'est d'avoir voulu aller tout droit que Sieur Ravariky a rencontre la mort)
Tratto dal Saggio di MARIA VASSILEVA
In Madagascar i
frammenti di vita si recuperano nei momenti e negli spazi dei morti. Parlare
della morte ha un valore strategico, poiché serve per esprimere ciò che i vivi
pensano, provano, agiscono e si scoprono le relazioni parentali, morali,
sociali del contesto culturale in cui vivono . I malgasci vedono nel momento
della morte la possibilità ultima di radicarsi: per questo resta il desiderio
di mantenere la "fissità" e la "vistosità" del rito fuenrario
che lo vede spesso il teatro dove si definiscono i rapporti di
"territorialità" e dei luoghi di appartenenza. In questo teatro sono
protagonisti i vivi quanto i morti, i corpi dei cadaveri danzano proprio come i
parenti vivi del defunto, bevono e mangiano, discutono insieme, si crea
un’atmosfera di dialogo e di comunione tra i due mondi, visibile ed invisibile.
Quando partecipai al mio primo Famadihana, la doppia sepoltura, ho percepito
per primo l’odore che impregnava l’aria, ho avuto la sensazione di un dialogo
olfattivo. Studi antropologici hanno individuato la tendenza comune in tutte le
civiltà ad attribuire al profumo il ruolo di strumento di comunicazione tra
uomini e divinità, parlando di un vero e proprio dialogo olfattivo. Le dense
nubi profumate, infatti, vengono usate durante le celebrazioni di molti riti
religiosi per le quali l'incenso, uno dei profumi più antichi al mondo, è
rimasto patrimonio comune legato al trascendente. Affinché l'olfatto esplori
l'invisibile, indaghi l'inafferrabile inaccessibile agli altri sensi, tentando
di captare l'effluvio del divino. L’antropologia dell’olfatto, o
più in generale l’antropologia dei sensi, non ha una lunga storia. I primi
studi risalgono alla fine degli anni ottanta del secolo scorso. Prima di allora
la rilevazione della componente olfattiva in una cultura, da parte degli
antropologi, era sporadica e del tutto fortuita. Nella nostra società la vista
ha preso il sopravvento su tutti gli altri sensi, condizionando la nostra
percezione del mondo. L’antropologia sensoriale cerca di scardinarne l’egemonia
(egemonia a cui siamo talmente abituati da attribuire un valore di verità
assoluta a quello che la vista ci dice, tanto da non accorgerci dei limiti che
ci siamo autoimposti) rivalutando l’importanza degli altri sensi come mezzo di
interazione con il mondo, e riconsiderando sia il valore che culture diverse
danno ai sensi, sia come all’interno delle stesse un individuo “pensa di
percepire”. In un primo momento ero stata completamente assorbita da ciò che
“vedevo”, la mia vista si esaltava nel vedere i cadaveri, avolti nei
“lamba”(lenzuolo funebre) ,tirati fuori dalle tombe familiari, a passi di
danza. Gente che ballava insieme ai loro defunti, ridendo cantando e tenendo le
bottiglie di rum, birre e quant’altro.
Alquanto
inusuale assistere ad un rituale del genere, ovviamente la prima cosa che
pensai fu: “Come fanno a toccare il
cadavere” oppure” Non gli fa senso?”
Dunque un pensiero , amettiamolo, che colpirebbe molti individui provenienti
dalla cultura “occidentale”. E’ quasi un
riflesso di ciò che noi siamo, di ciò che ci è stato insegnato. L’olfatto, in particolare, è per noi
occidentali il più infimo dei sensi e se le capacità olfattive abbiano subito
un progressivo peggioramento dovuto allo scarso uso o più semplicemente non
siamo più abituati a prestare attenzione a quello che il nostro naso ci dice. Questo
limite percettivo, specialmente in campo etnografico, può portare a leggere in
maniera errata l’approccio che culture diverse dalla nostra hanno con il mondo.
Sono stati definiti “primitivi” coloro che non erano in grado di riconoscere un
oggetto rappresentato con la tecnica della prospettiva, a noi così familiare.
Questa incapacità non è dovuta a un loro limite intellettuale, ma più
semplicemente non condividono una costruzione culturale che noi usiamo per interpretare
il mondo. Abbiamo finito per “naturalizzare” il nostro “punto di vista”;
espressione, questa, sintomatica del modello sensorium occidentale. Ma non si
tratta solo di un diverso atteggiamento verso le culture “altre”: secondo
Gusman “per l’antropologia dei sensi le
facoltà sensoriali non sono solo lo strumento di indagine che l’etnografo deve
imparare a utilizzare nel modo migliore. Infatti, oltre a essere una
riflessione sull’uso dei sensi in antropologia, questa corrente è anche una
riflessione sull’antropologia tramite i sensi, e uno studio antropologico delle
sensazioni e dei sistemi simbolici che a esse sono collegati”[1]
[1]Rif. Alessandro Gusman “Antropologia dell’olfatto”, Edizioni Laterza,2004. Il lavoro di
Alessandro Gusman è uno studio di grande interesse perché è il primo ad
introdurre e presentare in italia quella nuova corrente di studi che va sotto
il nome di “Antropologia sensoriale”. Nata in Canada alla fine degli anni
Ottanta ad opera di autori come David Howes, Constance Classen e Anthony
Synnott, questa disciplina ha seguito tre linee di ricerca principali: la
critica del predominio del senso della vista nella società occidentale, e della
conseguente svalutazione degli altri sensi, ritenuti “inferiori”; l’interesse
per l’uso delle facoltà sensoriali nella ricerca etnologica; e, infine,
l’indagine sui sistemi di percezione vigenti presso le società oggetto di
studio, per dimostrare come non sia possibile comprendere a fondo una cultura
partendo dai modelli percettivi propri della società in cui il ricercatore è
stato formato.A partire da tali assunti Gusman concentra la propria ricerca
sull’esperienza sensoriale olfattiva relativa a tre temi. In primo luogo il
concetto di identità e alterità, laddove, ci ricorda l’autore, “l’odore
dell’Altro” è stato spesso usato, e continua a esserlo, nelle argomentazioni di
stampo razzista: il foetor judaicus, che dal Medioevo all’epoca nazista ha
trovato numero assertori, è solo un esempio. Ma oltre che nella definizione del
nemico esterno (inteso come razzo o straniero), l’odore è servito storicamente
anche alla definizione di quello interno, rafforzando le pratiche di
segregazione (lo studioso Alain Corbin ha parlato di “ripartizione sociologica
della puzza”), come nella “puzza del povero” nella Francia del XVIII e XIX secolo.
Il secondo tema che Gusman affronta con la chiave di lettura fornita
dall’antropologia dei sensi è quello del rito, soprattutto nei suoi aspetti di
rito di passaggio (nascita, matrimonio) e di festa: in tutti questi casi
l’olfatto svolge un ruolo caratteristico nella scansione dei tempi giornalieri,
stagionali e dei principali momenti della vita individuale e collettiva.
Infine, ecco il terzo tema, la dicotomia vita/morte: qui l’autore riprende,
ampliandone i dati etnologici, quegli aspetti macabri legati ai miasmi e alla
putrefazione del corpo già considerati da Le Guérer in relazione alla peste. Il
volume si conclude con un capitolo finale dedicato al dialogo interdisciplinare
con le neuroscienze al fine di comprendere come la cultura, intrecciandosi con
le predeterminazioni genetiche, contribuisca a formare l’encefalo dell’essere
umano adulto, e presumibilmente a influenzare il suo modo di percepire il
mondo. Al lettore dotato di fiuto non sfuggirà certo l’occasione di una buona
lettura.
Tampoka ela nikasana toy ny fahafatesana.
Soudaine bien qu’attendue
longtemps, telle est la mort.
Proverbe malgache
In contrasto con quella che è la
nostra quotidianità occidentale, il cimitero malgascio è un luogo lontanissimo
dalla "sacralità" e dal silenzio che ci si potrebbe aspettare:
dalle tombe entrano ed escono in continuazione, tra le risa, dei ragazzini, le donne cucinano tra le lapidi e altre ancora stendono i panni ed i giocattoli dei bambini sulle croci dei sepolcri.
I nomi sulle tombe sono soprattutto francesi
(ex funzionari coloniali) e cinesi
(arrivati in massa durante la costruzione dell'unica ferrovia del Paese, oggi
inutilizzata ).
Una domanda è sorta spontanea nell’impatto con la loro cultura: se nei
cimiteri ci vivono quotidianamente i vivi, dove riposa l'oltre milione e mezzo
di abitanti della capitale quando muore? Questa domanda mi ha condotto durante
la mia ricerca di spingermi verso il cuore rurale del Paese, fino alla costa ovest dell'isola sull'Oceano
Indiano, ricercando le differenze e somiglianze nei costumi delle tre maggiori etnie
(Merina, Betsileo e Betsimisaraka).
Secondo Maurice Bloch, uno dei
maggiori esperti nella cultura del Madagascar, la complessità delle credenze
relative al 'viaggio dentro la morte'
[1]e
al suo legame con il processo opposto della vita può essere illustrata dalle
credenze tradizionali dei Merina e dei Betsileo del Madagascar. Questi
ritengono che l'individuo cambi gradatamente nel corso dell'esistenza.
Dapprima, nell'infanzia, il corpo è umido e molle, le ossa sono ancora
flessibili, la fontanella è "come una pozza d'acqua". Con la
crescita, che avviene grazie alla benedizione degli antenati sepolti nella
tomba di famiglia, si sviluppano gli elementi duri e asciutti del corpo, che
per i Malgasci sono associati alla dimensione morale della persona e la
attestano. Così l'individuo adulto è una mescolanza di elementi duri e
asciutti, costituiti principalmente dalle ossa, e di elementi molli e umidi,
costituiti principalmente dalla carne. Gradualmente, col passare del tempo, i
primi acquistano la preponderanza, ma non in modo definitivo finché l'individuo
è in vita. Al momento della morte, quindi, il corpo avrà sviluppato una grande
quantità di materia asciutta e dura, ma avrà ancora alcuni elementi molli e
umidi. Questi ultimi sono destinati a scomparire qualche tempo dopo la morte,
con la putrefazione, e in questo modo si completerà il processo iniziato in
vita. Per i Merina pertanto le trasformazioni del corpo nel corso
dell'esistenza e dopo la morte sono parte di un unico processo più generale,
rispetto al quale ciò che chiamiamo 'morte' non è che un episodio .Questa
concezione della morte si riflette nelle cerimonie funebri dei Merina e dei
Betsileo. Secondo la cerimonia del Famadihana, che comportano una prima
sepoltura temporanea del cadavere, immediatamente dopo la morte, affinché le
parti umide e molli possano definitivamente asciugarsi; successivamente,
trascorsi due anni o più, le parti asciutte, ossia le ossa, vengono esumate e
seppellite nella tomba di famiglia, con una elaborata cerimonia di seconda
sepoltura. I due funerali quindi segnalano e sanciscono il compimento del
processo che ha avuto luogo in vita. Inoltre, il fatto che gli elementi duri e
asciutti vengano deposti nella tomba di famiglia, come accade anche presso
altri popoli, indica anche un altro cambiamento: il cadavere perde ogni
individualità e il defunto va a fondersi con l'intera famiglia in un monumento
destinato a durare in eterno (v. Bloch, 1971 e 1986), che diventerà fonte della
benedizione degli antenati(razana). Dice Bloch:
” Le ossa dei morti quindi generano quelle dei vivi, in una sorta di
parziale reincarnazione; il processo attraverso il quale il cadavere si libera
progressivamente della carne, delle parti molli e umide, è parte del processo
di sviluppo del giovane, che segna la sua trasformazione in un individuo morale
con una quantità crescente di elementi rigidi e asciutti, ossia di ossa, nel
corpo” (v. Bloch, 1986).
Gli inizi di un approccio
antropologico alla morte e ai riti funebri più orientato in senso culturale o
sociale si possono far risalire probabilmente all'antropologo svizzero Jacob
Bachofen, il quale nel 1859 pubblicò uno
studio dal titolo Versuch über
Grabersymbolik der Alten, in cui metteva in luce, tra le altre cose, un
aspetto che avrebbe affascinato gli antropologi per la sua apparente stranezza,
ossia il legame tra riti funebri e culti della fertilità. I materiali di cui
Bachofen si servì in questo studio erano attinti in prevalenza da fonti
classiche, come ad esempio i culti misterici e i giochi funebri dell'antichità
greca e romana. Tornando alla concezione della
morte in antropologia anche Frazer e Taylor sono stati affascinanti dal tema
del mondo Invisibile dei Morti. Hanno per lungo esplorato questo tema, ma più che sulle pratiche funerarie incentrarono
la loro attenzione sulle credenze relative alla vita dopo la morte. In
particolare, Tylor sostenne che la credenza nell'aldilà, a sua volta
riconducibile al tentativo di comprendere il fenomeno dei sogni, è all'origine
della religione. Tuttavia fu solo col famoso saggio dell'antropologo francese
Robert Hertz, Contribution à une étude
sur la représentation collective de la mort (v. Hertz, 1907), che venne
formulata per la prima volta una vera e propria teoria generale sulle pratiche
funerarie. Hertz era membro della "Année sociologique" diretta da
Émile Durkheim, e sua preoccupazione principale fu di affermare il carattere
non già individuale bensì sociale delle pratiche associate alla morte. Hertz
seguiva in questo modo la paradossale tesi sostenuta dal maestro in Le suicide,
secondo cui il suicidio, che spesso viene considerato il più privato degli
atti, può essere in realtà studiato come un fatto sociale. Secondo Hertz lo
stesso vale per le pratiche funerarie; ogni morte, infatti, comporta una
rottura nell'ordine della società, e i riti funebri hanno il compito di sanare
tale rottura, in parte attraverso il trasferimento e la redistribuzione delle
posizioni di status e delle proprietà appartenute al defunto. I riti funebri
inoltre contribuiscono a riordinare la memoria e a lenire il dolore, in quanto
rappresentano in una storia coerente il viaggio dei defunti che si dipartono dai
vivi.
Tale viaggio è spesso
concepito come lungo e complesso, e ciò si riflette anche nel fatto che i
funerali spesso non si esauriscono in un unico rito, ma comportano un complesso
di cerimonie che vanno dall'inumazione del cadavere alla mummificazione e alla
decomposizione parziale. In questo studio relativamente breve Hertz formula gran parte
delle principali questioni di cui si occuperanno gli antropologi successivi. Vediamo
la teoria che Hertz ha elaborato nella sua ricerca:
La tesi di Hertz, <<secondo
la quale la morte spesso non viene considerata come un evento che si verifica
istantaneamente bensì come un lungo processo, può sembrare strana al lettore
europeo, abituato a considerare la vita e la morte come due stati opposti in
modo categorico, senza vie di mezzo.>> D'altro canto, in quei sistemi di
idee tipici delle società tradizionali del Sudest asiatico che Hertz porta ad
esempio, la morte è considerata essenzialmente solo una fase di un lungo
processo che ha inizio prima che si verifichi l'evento 'morte' e continua molto
dopo di esso.
Così in uno studio intitolato in modo
suggestivo A Bornean journey into death,
che ha come oggetto una delle popolazioni del Borneo[2]
citate da Hertz, Peter Metcalf (v., 1982) dimostra che tutta una serie di riti funebri,
alcuni dei quali si svolgono molto tempo dopo la morte e comportano la
manipolazione del cadavere e altre pratiche, come ad esempio la pratica dei
Dayak della caccia alle teste[3],
hanno il compito di portare a compimento il viaggio del defunto, che si
trasforma gradualmente in un'anima sempre più eterea e immateriale.
Il tentativo dei Merina e
dei Betsileo di conservare determinate parti del corpo dei morti[4]
e di eliminarne altre dimostra in che misura le pratiche funerarie siano
strettamente connesse alle concezioni relative alla natura del corpo. Nella
Cina meridionale ad esempio, dove si crede che gli spiriti degli antenati
sopravvivano, esercitando la loro benefica influenza, sotto forma di una
tavoletta collocata nel tempio di famiglia, la disposizione del cadavere
riveste una grande importanza, in quanto il posto esatto in cui esso sarà
collocato influenzerà la sorte dei discendenti in modo neutro dal punto di
vista morale (v. Watson e Rawski, 1988). Anche in Europa il trattamento
riservato ai cadaveri degli antenati molto tempo dopo la morte può assumere una
notevole importanza; in Grecia, i crani degli avi vengono riesumati e ripuliti,
per essere conservati in speciali ossari di famiglia. Così anche presso i Gimi ,della
Nuova Guinea (v. Gillison, 1993), credono che ogni persona sia il risultato di
una combinazione tra le ossa, derivate dai membri del suo clan d'origine, e la
carne, derivata dalle donne che appartengono invece a un clan estraneo. È a
questa combinazione che si deve la vita di ogni individuo; con la morte, ossia
con il disfacimento della persona, si ha una separazione tra gli elementi
derivati dal padre e quelli derivati dalla madre. Questa credenza era alla base
di una pratica cannibalistica: le donne erano obbligate a mangiare la carne dei
morti in modo da liberare le ossa appartenenti ai membri del clan del coniuge.
Così facendo esse si riprendevano ciò che
avevano portato e ponevano fine all'alleanza tra clan incarnata dal corpo
vivente. Questa fine dello scambio tuttavia segnava solo l'inizio della
possibilità di nuovi scambi; il cannibalismo delle donne Gimi faceva sì che le
ossa e la carne degli uomini potessero essere in ultimo simbolicamente
'riutilizzati' per creare i membri futuri del clan, attraverso nuove alleanze
con altre donne. Tale concezione sul
cannibalismo è parte di una più ampia costellazione di idee riguardanti i
poteri mistici in generale e la stregoneria in particolare.
[2] Estratto dall’Intervista che fatto a Tiziana Ciavardini,
antropologa italiana che ha studiato le popolazioni del Borneo: “..Anche per
quanto riguarda la religione, non esiste purtroppo una ricerca
etno-storico-religiosa che investa tutto il complesso mondo dei Dayak del
Borneo, e che esamini le forme specifiche nelle quali presso queste popolazioni prendono corpo i grandi temi mitologici e culturali
comuni a tutte le popolazioni dell’Indonesia e della Malesia. La dimensione del
divino presso i Dayak, e dunque i Kantù, si realizza in personaggi mitici che
corrispondono vagamente all’ideologia occidentale monoteistica. Tutti i gruppi
Dayak riconoscono una divinità principale della creazione che è formata da due
parti a volte nominate separatamente o due distinte divinità. Di fondamentale
importanza, è il principio di dualismo che struttura la concezione nativa del
cosmo. Essa coinvolge l’unione dei due aspetti della divinità o delle due deità
che rappresentano da una parte il mondo superiore, quello al di sopra del mondo
umano, e dall'altra le acque primordiali terrestri identificate con il mondo
sotterraneo. La rappresentazione di questa dualità si raggiunge anche
attraverso l’associazione simbolica del mondo superiore con il mondo degli
uccelli, generalmente detto l’hornbill,
ed il mondo inferiore con il serpente. Questa concezione dualista del cosmo è
anche espressa nell’associazione del cielo con la forza vitale maschile, dunque
la caccia alle teste, e quello della
terra con la forza vitale femminile,
l’agricoltura. Il culto della
testa ha un’intima relazione con la promozione della fertilità umana e con
i raccolti abbondanti...”
[3] Una delle poche antropologhe
italiane e ricercatrice (presso
l’Università di Hong Kong) che ha studiato questo fenomeno, Tiziana Ciavardini,
è stata intervistata da me per il programma radiofonico ANTHROPOS, riporto qui
alcuni spunti dall’intervista:
Qual è il significato della
pratica della “ caccia alle teste”?
“ l
culto antico tributato alla testa (sia nella forma del teschio sia nell'atto di
"staccarla" dal corpo) pare fosse dovuto proprio alla sua forma di
contenitore di tale "essenza umana". Per questo motivo alla testa
sono collegate credenze e usanze del tutto particolari. Essa, nel corso della
storia, è stata mangiata, tagliata, conservata, esposta, riverita, oltraggiata:
un corpo senza testa o una testa senza corpo hanno avuto ed hanno una forte
carica simbolica.
Tant'è
che esiste una vera e propria storia della decapitazione nelle diverse civiltà,
con numerose varianti. Portare una testa mozzata al villaggio garantiva non
solo un grande prestigio, derivato dalla difficoltà dell'impresa, ma assumeva
anche una forte carica simbolica: il trofeo era assunto simbolicamente a
rappresentare le valenze "sacrali" dell'uomo. Sappiamo che presso i
Dayak il taglio della testa del nemico ed il portarla al villaggio come trofeo,
erano elementi vitali di un complesso di credenze pratiche riguardanti l’anima,
la vita, la morte e la fertilità. Sebbene queste pratiche siano state proibite
ed eliminate dalle potenze europee che occupavano i territori del Borneo, molti
continuano a compiere questo tipo di rituali che richiedono l’uso di teschi e a
mantenere l’idea della potenza della testa tagliata. Così come il maggior
contributo maschile per un buon raccolto è la caccia delle teste che favorisce
simbolicamente la fertilità, così il contributo femminile è individuabile sia
nella pratica della coltivazione del riso, sia nella conoscenza dei semi.
Sebbene l’uomo partecipi alle varie fasi della coltivazione del riso,
l’agricoltura è soprattutto identificata con il mondo femminile: la crescita e
la maturazione del riso sono associate alla gravidanza e all’anatomia
femminile. I Dayak credono che il riso possegga un’anima come gli umani e che
la sua fertilità dipenda dalla
condizione spirituale.”
[4] Lo vedremo durante la descrizione
del rito della riesumazione del cadavere Famadihana, durante il quale i vivi
ballano con i cadaveri.
TRATTO DAL SAGGIO: MADAGASCAR: STREGONERIA E POSSESSIONE ,2013
autrice Maria VASSILEVA
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