lunedì 30 giugno 2014

MADAGASCAR: ODORE DI MORTE, ODORE DI VITA



                                           "Nahafaty Ravariky: nanano lala-mahitsy"
     ( proverbio Betsimisaraka:” c'est d'avoir voulu aller tout droit que  Sieur Ravariky a rencontre la mort)


Tratto dal Saggio di MARIA VASSILEVA

 In Madagascar i frammenti di vita si recuperano nei momenti e negli spazi dei morti. Parlare della morte ha un valore strategico, poiché serve per esprimere ciò che i vivi pensano, provano, agiscono e si scoprono le relazioni parentali, morali, sociali del contesto culturale in cui vivono . I malgasci vedono nel momento della morte la possibilità ultima di radicarsi: per questo resta il desiderio di mantenere la "fissità" e la "vistosità" del rito fuenrario che lo vede spesso il teatro dove si definiscono i rapporti di "territorialità" e dei luoghi di appartenenza. In questo teatro sono protagonisti i vivi quanto i morti, i corpi dei cadaveri danzano proprio come i parenti vivi del defunto, bevono e mangiano, discutono insieme, si crea un’atmosfera di dialogo e di comunione tra i due mondi, visibile ed invisibile. Quando partecipai al mio primo Famadihana, la doppia sepoltura, ho percepito per primo l’odore che impregnava l’aria, ho avuto la sensazione di un dialogo olfattivo. Studi antropologici hanno individuato la tendenza comune in tutte le civiltà ad attribuire al profumo il ruolo di strumento di comunicazione tra uomini e divinità, parlando di un vero e proprio dialogo olfattivo. Le dense nubi profumate, infatti, vengono usate durante le celebrazioni di molti riti religiosi per le quali l'incenso, uno dei profumi più antichi al mondo, è rimasto patrimonio comune legato al trascendente. Affinché l'olfatto esplori l'invisibile, indaghi l'inafferrabile inaccessibile agli altri sensi, tentando di captare l'effluvio del divino. L’antropologia dell’olfatto, o più in generale l’antropologia dei sensi, non ha una lunga storia. I primi studi risalgono alla fine degli anni ottanta del secolo scorso. Prima di allora la rilevazione della componente olfattiva in una cultura, da parte degli antropologi, era sporadica e del tutto fortuita. Nella nostra società la vista ha preso il sopravvento su tutti gli altri sensi, condizionando la nostra percezione del mondo. L’antropologia sensoriale cerca di scardinarne l’egemonia (egemonia a cui siamo talmente abituati da attribuire un valore di verità assoluta a quello che la vista ci dice, tanto da non accorgerci dei limiti che ci siamo autoimposti) rivalutando l’importanza degli altri sensi come mezzo di interazione con il mondo, e riconsiderando sia il valore che culture diverse danno ai sensi, sia come all’interno delle stesse un individuo “pensa di percepire”. In un primo momento ero stata completamente assorbita da ciò che “vedevo”, la mia vista si esaltava nel vedere i cadaveri, avolti nei “lamba”(lenzuolo funebre) ,tirati fuori dalle tombe familiari, a passi di danza. Gente che ballava insieme ai loro defunti, ridendo cantando e tenendo le bottiglie di rum, birre e quant’altro.
  Alquanto inusuale assistere ad un rituale del genere, ovviamente la prima cosa che pensai fu: “Come fanno a toccare il cadavere” oppure” Non gli fa senso?” Dunque un pensiero , amettiamolo, che colpirebbe molti individui provenienti dalla  cultura “occidentale”. E’ quasi un riflesso di ciò che noi siamo, di ciò che ci è stato insegnato.  L’olfatto, in particolare, è per noi occidentali il più infimo dei sensi e se le capacità olfattive abbiano subito un progressivo peggioramento dovuto allo scarso uso o più semplicemente non siamo più abituati a prestare attenzione a quello che il nostro naso ci dice. Questo limite percettivo, specialmente in campo etnografico, può portare a leggere in maniera errata l’approccio che culture diverse dalla nostra hanno con il mondo. Sono stati definiti “primitivi” coloro che non erano in grado di riconoscere un oggetto rappresentato con la tecnica della prospettiva, a noi così familiare. Questa incapacità non è dovuta a un loro limite intellettuale, ma più semplicemente non condividono una costruzione culturale che noi usiamo per interpretare il mondo. Abbiamo finito per “naturalizzare” il nostro “punto di vista”; espressione, questa, sintomatica del modello sensorium occidentale. Ma non si tratta solo di un diverso atteggiamento verso le culture “altre”: secondo Gusman “per l’antropologia dei sensi le facoltà sensoriali non sono solo lo strumento di indagine che l’etnografo deve imparare a utilizzare nel modo migliore. Infatti, oltre a essere una riflessione sull’uso dei sensi in antropologia, questa corrente è anche una riflessione sull’antropologia tramite i sensi, e uno studio antropologico delle sensazioni e dei sistemi simbolici che a esse sono collegati[1]


[1]Rif. Alessandro Gusman “Antropologia dell’olfatto”, Edizioni Laterza,2004. Il lavoro di Alessandro Gusman è uno studio di grande interesse perché è il primo ad introdurre e presentare in italia quella nuova corrente di studi che va sotto il nome di “Antropologia sensoriale”. Nata in Canada alla fine degli anni Ottanta ad opera di autori come David Howes, Constance Classen e Anthony Synnott, questa disciplina ha seguito tre linee di ricerca principali: la critica del predominio del senso della vista nella società occidentale, e della conseguente svalutazione degli altri sensi, ritenuti “inferiori”; l’interesse per l’uso delle facoltà sensoriali nella ricerca etnologica; e, infine, l’indagine sui sistemi di percezione vigenti presso le società oggetto di studio, per dimostrare come non sia possibile comprendere a fondo una cultura partendo dai modelli percettivi propri della società in cui il ricercatore è stato formato.A partire da tali assunti Gusman concentra la propria ricerca sull’esperienza sensoriale olfattiva relativa a tre temi. In primo luogo il concetto di identità e alterità, laddove, ci ricorda l’autore, “l’odore dell’Altro” è stato spesso usato, e continua a esserlo, nelle argomentazioni di stampo razzista: il foetor judaicus, che dal Medioevo all’epoca nazista ha trovato numero assertori, è solo un esempio. Ma oltre che nella definizione del nemico esterno (inteso come razzo o straniero), l’odore è servito storicamente anche alla definizione di quello interno, rafforzando le pratiche di segregazione (lo studioso Alain Corbin ha parlato di “ripartizione sociologica della puzza”), come nella “puzza del povero” nella Francia del XVIII e XIX secolo. Il secondo tema che Gusman affronta con la chiave di lettura fornita dall’antropologia dei sensi è quello del rito, soprattutto nei suoi aspetti di rito di passaggio (nascita, matrimonio) e di festa: in tutti questi casi l’olfatto svolge un ruolo caratteristico nella scansione dei tempi giornalieri, stagionali e dei principali momenti della vita individuale e collettiva. Infine, ecco il terzo tema, la dicotomia vita/morte: qui l’autore riprende, ampliandone i dati etnologici, quegli aspetti macabri legati ai miasmi e alla putrefazione del corpo già considerati da Le Guérer in relazione alla peste. Il volume si conclude con un capitolo finale dedicato al dialogo interdisciplinare con le neuroscienze al fine di comprendere come la cultura, intrecciandosi con le predeterminazioni genetiche, contribuisca a formare l’encefalo dell’essere umano adulto, e presumibilmente a influenzare il suo modo di percepire il mondo. Al lettore dotato di fiuto non sfuggirà certo l’occasione di una buona lettura.






Tampoka ela nikasana toy ny fahafatesana.
Soudaine bien qu’attendue longtemps, telle est la  mort.
Proverbe malgache

In contrasto con quella che è la nostra quotidianità occidentale, il cimitero malgascio è un luogo lontanissimo dalla "sacralità" e dal silenzio che ci si potrebbe aspettare: dalle tombe entrano ed escono in continuazione, tra le risa, dei ragazzini, le donne cucinano tra le lapidi e altre ancora stendono i panni ed i giocattoli dei bambini sulle croci dei sepolcri. I nomi sulle tombe sono soprattutto francesi (ex funzionari coloniali) e cinesi (arrivati in massa durante la costruzione dell'unica ferrovia del Paese, oggi inutilizzata ).
Una domanda è sorta spontanea nell’impatto con la loro cultura: se nei cimiteri ci vivono quotidianamente i vivi, dove riposa l'oltre milione e mezzo di abitanti della capitale quando muore? Questa domanda mi ha condotto durante la mia ricerca di spingermi verso il cuore rurale del Paese, fino alla costa ovest dell'isola sull'Oceano Indiano, ricercando le differenze e somiglianze nei costumi delle tre maggiori etnie (Merina, Betsileo e Betsimisaraka).
Secondo Maurice Bloch, uno dei maggiori esperti nella cultura del Madagascar, la complessità delle credenze relative al 'viaggio dentro la morte' [1]e al suo legame con il processo opposto della vita può essere illustrata dalle credenze tradizionali dei Merina e dei Betsileo del Madagascar. Questi ritengono che l'individuo cambi gradatamente nel corso dell'esistenza. Dapprima, nell'infanzia, il corpo è umido e molle, le ossa sono ancora flessibili, la fontanella è "come una pozza d'acqua". Con la crescita, che avviene grazie alla benedizione degli antenati sepolti nella tomba di famiglia, si sviluppano gli elementi duri e asciutti del corpo, che per i Malgasci sono associati alla dimensione morale della persona e la attestano. Così l'individuo adulto è una mescolanza di elementi duri e asciutti, costituiti principalmente dalle ossa, e di elementi molli e umidi, costituiti principalmente dalla carne. Gradualmente, col passare del tempo, i primi acquistano la preponderanza, ma non in modo definitivo finché l'individuo è in vita. Al momento della morte, quindi, il corpo avrà sviluppato una grande quantità di materia asciutta e dura, ma avrà ancora alcuni elementi molli e umidi. Questi ultimi sono destinati a scomparire qualche tempo dopo la morte, con la putrefazione, e in questo modo si completerà il processo iniziato in vita. Per i Merina pertanto le trasformazioni del corpo nel corso dell'esistenza e dopo la morte sono parte di un unico processo più generale, rispetto al quale ciò che chiamiamo 'morte' non è che un episodio .Questa concezione della morte si riflette nelle cerimonie funebri dei Merina e dei Betsileo. Secondo la cerimonia del Famadihana, che comportano una prima sepoltura temporanea del cadavere, immediatamente dopo la morte, affinché le parti umide e molli possano definitivamente asciugarsi; successivamente, trascorsi due anni o più, le parti asciutte, ossia le ossa, vengono esumate e seppellite nella tomba di famiglia, con una elaborata cerimonia di seconda sepoltura. I due funerali quindi segnalano e sanciscono il compimento del processo che ha avuto luogo in vita. Inoltre, il fatto che gli elementi duri e asciutti vengano deposti nella tomba di famiglia, come accade anche presso altri popoli, indica anche un altro cambiamento: il cadavere perde ogni individualità e il defunto va a fondersi con l'intera famiglia in un monumento destinato a durare in eterno (v. Bloch, 1971 e 1986), che diventerà fonte della benedizione degli antenati(razana). Dice Bloch:
Le ossa dei morti quindi generano quelle dei vivi, in una sorta di parziale reincarnazione; il processo attraverso il quale il cadavere si libera progressivamente della carne, delle parti molli e umide, è parte del processo di sviluppo del giovane, che segna la sua trasformazione in un individuo morale con una quantità crescente di elementi rigidi e asciutti, ossia di ossa, nel corpo” (v. Bloch, 1986).
Gli inizi di un approccio antropologico alla morte e ai riti funebri più orientato in senso culturale o sociale si possono far risalire probabilmente all'antropologo svizzero Jacob Bachofen, il quale nel 1859  pubblicò uno studio dal titolo Versuch über Grabersymbolik der Alten, in cui metteva in luce, tra le altre cose, un aspetto che avrebbe affascinato gli antropologi per la sua apparente stranezza, ossia il legame tra riti funebri e culti della fertilità. I materiali di cui Bachofen si servì in questo studio erano attinti in prevalenza da fonti classiche, come ad esempio i culti misterici e i giochi funebri dell'antichità greca e romana. Tornando alla concezione della morte in antropologia anche Frazer e Taylor sono stati affascinanti dal tema del mondo Invisibile dei Morti. Hanno per lungo esplorato questo tema, ma più che sulle pratiche funerarie incentrarono la loro attenzione sulle credenze relative alla vita dopo la morte. In particolare, Tylor sostenne che la credenza nell'aldilà, a sua volta riconducibile al tentativo di comprendere il fenomeno dei sogni, è all'origine della religione. Tuttavia fu solo col famoso saggio dell'antropologo francese Robert Hertz, Contribution à une étude sur la représentation collective de la mort (v. Hertz, 1907), che venne formulata per la prima volta una vera e propria teoria generale sulle pratiche funerarie. Hertz era membro della "Année sociologique" diretta da Émile Durkheim, e sua preoccupazione principale fu di affermare il carattere non già individuale bensì sociale delle pratiche associate alla morte. Hertz seguiva in questo modo la paradossale tesi sostenuta dal maestro in Le suicide, secondo cui il suicidio, che spesso viene considerato il più privato degli atti, può essere in realtà studiato come un fatto sociale. Secondo Hertz lo stesso vale per le pratiche funerarie; ogni morte, infatti, comporta una rottura nell'ordine della società, e i riti funebri hanno il compito di sanare tale rottura, in parte attraverso il trasferimento e la redistribuzione delle posizioni di status e delle proprietà appartenute al defunto. I riti funebri inoltre contribuiscono a riordinare la memoria e a lenire il dolore, in quanto rappresentano in una storia coerente il viaggio dei defunti che si dipartono dai vivi.
Tale viaggio è spesso concepito come lungo e complesso, e ciò si riflette anche nel fatto che i funerali spesso non si esauriscono in un unico rito, ma comportano un complesso di cerimonie che vanno dall'inumazione del cadavere alla mummificazione e alla decomposizione parziale. In questo studio  relativamente breve Hertz formula gran parte delle principali questioni di cui si occuperanno gli antropologi successivi. Vediamo la teoria che Hertz ha elaborato nella sua ricerca:
La tesi di Hertz, <<secondo la quale la morte spesso non viene considerata come un evento che si verifica istantaneamente bensì come un lungo processo, può sembrare strana al lettore europeo, abituato a considerare la vita e la morte come due stati opposti in modo categorico, senza vie di mezzo.>> D'altro canto, in quei sistemi di idee tipici delle società tradizionali del Sudest asiatico che Hertz porta ad esempio, la morte è considerata essenzialmente solo una fase di un lungo processo che ha inizio prima che si verifichi l'evento 'morte' e continua molto dopo di esso.
 Così in uno studio intitolato in modo suggestivo A Bornean journey into death, che ha come oggetto una delle popolazioni del Borneo[2] citate da Hertz, Peter Metcalf (v., 1982) dimostra che tutta una serie di riti funebri, alcuni dei quali si svolgono molto tempo dopo la morte e comportano la manipolazione del cadavere e altre pratiche, come ad esempio la pratica dei Dayak della  caccia alle teste[3], hanno il compito di portare a compimento il viaggio del defunto, che si trasforma gradualmente in un'anima sempre più eterea e immateriale.
Il tentativo dei Merina e dei Betsileo di conservare determinate parti del corpo dei morti[4] e di eliminarne altre dimostra in che misura le pratiche funerarie siano strettamente connesse alle concezioni relative alla natura del corpo. Nella Cina meridionale ad esempio, dove si crede che gli spiriti degli antenati sopravvivano, esercitando la loro benefica influenza, sotto forma di una tavoletta collocata nel tempio di famiglia, la disposizione del cadavere riveste una grande importanza, in quanto il posto esatto in cui esso sarà collocato influenzerà la sorte dei discendenti in modo neutro dal punto di vista morale (v. Watson e Rawski, 1988). Anche in Europa il trattamento riservato ai cadaveri degli antenati molto tempo dopo la morte può assumere una notevole importanza; in Grecia, i crani degli avi vengono riesumati e ripuliti, per essere conservati in speciali ossari di famiglia. Così anche presso i Gimi ,della Nuova Guinea (v. Gillison, 1993), credono che ogni persona sia il risultato di una combinazione tra le ossa, derivate dai membri del suo clan d'origine, e la carne, derivata dalle donne che appartengono invece a un clan estraneo. È a questa combinazione che si deve la vita di ogni individuo; con la morte, ossia con il disfacimento della persona, si ha una separazione tra gli elementi derivati dal padre e quelli derivati dalla madre. Questa credenza era alla base di una pratica cannibalistica: le donne erano obbligate a mangiare la carne dei morti in modo da liberare le ossa appartenenti ai membri del clan del coniuge.
 Così facendo esse si riprendevano ciò che avevano portato e ponevano fine all'alleanza tra clan incarnata dal corpo vivente. Questa fine dello scambio tuttavia segnava solo l'inizio della possibilità di nuovi scambi; il cannibalismo delle donne Gimi faceva sì che le ossa e la carne degli uomini potessero essere in ultimo simbolicamente 'riutilizzati' per creare i membri futuri del clan, attraverso nuove alleanze con altre donne.  Tale concezione sul cannibalismo è parte di una più ampia costellazione di idee riguardanti i poteri mistici in generale e la stregoneria in particolare.



[1] Rif. La Morte (a cura di)  Maurice Bloch e Carlo Alberto Defanti, Antropologia, 2003
[2] Estratto dall’Intervista che fatto a Tiziana Ciavardini, antropologa italiana che ha studiato le popolazioni del Borneo: “..Anche per quanto riguarda la religione, non esiste purtroppo una ricerca etno-storico-religiosa che investa tutto il complesso mondo dei Dayak del Borneo, e che esamini le forme specifiche nelle quali presso queste popolazioni prendono corpo i grandi temi mitologici e culturali comuni a tutte le popolazioni dell’Indonesia e della Malesia. La dimensione del divino presso i Dayak, e dunque i Kantù, si realizza in personaggi mitici che corrispondono vagamente all’ideologia occidentale monoteistica. Tutti i gruppi Dayak riconoscono una divinità principale della creazione che è formata da due parti a volte nominate separatamente o due distinte divinità. Di fondamentale importanza, è il principio di dualismo che struttura la concezione nativa del cosmo. Essa coinvolge l’unione dei due aspetti della divinità o delle due deità che rappresentano da una parte il mondo superiore, quello al di sopra del mondo umano, e dall'altra le acque primordiali terrestri identificate con il mondo sotterraneo. La rappresentazione di questa dualità si raggiunge anche attraverso l’associazione simbolica del mondo superiore con il mondo degli uccelli, generalmente detto  l’hornbill, ed il mondo inferiore con il serpente. Questa concezione dualista del cosmo è anche espressa nell’associazione del cielo con la forza vitale maschile, dunque la caccia alle teste, e quello della terra con la forza vitale femminile,  l’agricoltura. Il culto della testa ha un’intima relazione con la promozione della fertilità umana e con i raccolti abbondanti...”

[3] Una delle poche antropologhe italiane  e ricercatrice (presso l’Università di Hong Kong) che ha studiato questo fenomeno, Tiziana Ciavardini, è stata intervistata da me per il programma radiofonico ANTHROPOS, riporto qui alcuni spunti dall’intervista:
Qual è il significato della pratica  della “ caccia alle teste”?
“ l culto antico tributato alla testa (sia nella forma del teschio sia nell'atto di "staccarla" dal corpo) pare fosse dovuto proprio alla sua forma di contenitore di tale "essenza umana". Per questo motivo alla testa sono collegate credenze e usanze del tutto particolari. Essa, nel corso della storia, è stata mangiata, tagliata, conservata, esposta, riverita, oltraggiata: un corpo senza testa o una testa senza corpo hanno avuto ed hanno una forte carica simbolica.
Tant'è che esiste una vera e propria storia della decapitazione nelle diverse civiltà, con numerose varianti. Portare una testa mozzata al villaggio garantiva non solo un grande prestigio, derivato dalla difficoltà dell'impresa, ma assumeva anche una forte carica simbolica: il trofeo era assunto simbolicamente a rappresentare le valenze "sacrali" dell'uomo. Sappiamo che presso i Dayak il taglio della testa del nemico ed il portarla al villaggio come trofeo, erano elementi vitali di un complesso di credenze pratiche riguardanti l’anima, la vita, la morte e la fertilità. Sebbene queste pratiche siano state proibite ed eliminate dalle potenze europee che occupavano i territori del Borneo, molti continuano a compiere questo tipo di rituali che richiedono l’uso di teschi e a mantenere l’idea della potenza della testa tagliata. Così come il maggior contributo maschile per un buon raccolto è la caccia delle teste che favorisce simbolicamente la fertilità, così il contributo femminile è individuabile sia nella pratica della coltivazione del riso, sia nella conoscenza dei semi. Sebbene l’uomo partecipi alle varie fasi della coltivazione del riso, l’agricoltura è soprattutto identificata con il mondo femminile: la crescita e la maturazione del riso sono associate alla gravidanza e all’anatomia femminile. I Dayak credono che il riso possegga un’anima come gli umani e che la sua fertilità dipenda dalla  condizione spirituale.”
[4] Lo vedremo durante la descrizione del rito della riesumazione del cadavere Famadihana, durante il quale i vivi ballano con i cadaveri.


                      TRATTO DAL SAGGIO: MADAGASCAR:   STREGONERIA E POSSESSIONE ,2013
                                                                                                                             autrice Maria VASSILEVA 



 

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